24 maggio 2015

Aristotele - Etica Nicomachea, Libro I, Capitolo VIII

      ... Poiché i beni sono stati divisi in tre gruppi, e poiché gli uni sono stati chiamati beni esteriori, gli altri beni dell’anima e beni del corpo, noi affermiamo che quelli dell’anima sono beni nel senso più proprio e nel grado più elevato e poniamo tra i beni dell’anima le sue specifiche azioni e attività. Perciò la nostra affermazione sarà giusta, almeno se si segue questa opinione che è antica ed ha ricevuto il consenso dei filosofi. Ed è corretto anche dire che il fine è costituito da certe azioni e attività, poiché così esso viene a trovarsi tra i beni dell’anima e non tra quelli esteriori. 

      S’accorda poi con la nostra definizione l’opinione che l’uomo felice è quello che vive bene ed ha successo: infatti la felicità è stata definita, pressappoco, come una specie di vita buona e di successo. È manifesto che gli elementi della felicità di cui si va in cerca si ritrovano tutti in quanto abbiamo detto. Infatti, alcuni ritengono che la felicità consista nella virtù, altri nella saggezza, altri in un certo tipo di sapienza; per altri, poi, essa è o tutte queste cose insieme o una di queste in unione col piacere, o comunque non senza piacere; altri, infine, vi aggiungono anche la disponibilità di beni esteriori. Di alcune di queste opinioni ci sono sostenitori numerosi e antichi, di altre pochi ma famosi: è ragionevole pensare che né gli uni né gli altri siano completamente in errore, ma che essi colgano nel segno almeno in un punto, o anche nella maggior parte dei punti. La nostra definizione dunque è in accordo con coloro che identificano la felicità con la virtù o con una virtù particolare, poiché l’attività secondo virtù è propria di una determinata virtù. 

      Certo non è piccola la differenza se si pensa che il sommo bene consista in un possesso oppure in un uso, cioè in una disposizione oppure in una attività. Può essere, infatti, che la disposizione ci sia, ma non compia alcun bene, come in chi dorme o in qualche altro modo è inattivo; ma per l’attività ciò non è possibile, giacché essa necessariamente agirà ed avrà successo. Come nelle Olimpiadi non sono i più belli e i più forti ad essere incoronati, ma quelli che partecipano alle gare (infatti i vincitori sono tra questi), così nella vita è giusto che conseguano ciò che è bello e buono coloro che agiscono. La loro vita poi è per se stessa piacevole. Infatti il godere è proprio dell’anima, e per ciascuno è piacevole ciò di cui si dice che è amante: per esempio, un cavallo per l’amante dei cavalli, uno spettacolo per l’amante degli spettacoli; allo stesso modo le cose giuste per l’amante della giustizia, e, in genere, le azioni conformi alla virtù per l’amante della virtù. 

     Insomma, per la massa degli uomini le cose piacevoli sono in conflitto perché non sono tali per natura, mentre per gli amanti del bello sono piacevoli le cose che per natura sono piacevoli: tali sono le azioni secondo virtù, cosicché esse sono piacevoli sia per questi uomini sia per se stesse. La vita di costoro, dunque, non ha bisogno del piacere come di qualcosa di accessorio, ma ha il piacere in se stessa. Oltre a quanto s’è detto, infatti, non è buono chi non compie con piacere le azioni buone: infatti nessuno direbbe giusto chi non compie con piacere azioni giuste, né liberale chi non compie con piacere azioni liberali: lo stesso vale per le altre azioni buone. E se è così, le azioni secondo virtù saranno piacevoli per se stesse. Ma saranno di certo anche buone e belle, e in massimo grado piacevoli buone e belle, se è vero che giudica bene di loro l’uomo di valore: ed egli giudica come abbiamo detto. Dunque, la felicità è insieme la cosa più buona, la più bella e la più piacevole, qualità queste, che non devono essere separate come fa l’iscrizione di Delo:

"La cosa più bella è la più grande giustizia;
la cosa più buona è la salute;
ma la cosa per natura più piacevole è raggiungere ciò che si desidera".
      
        Infatti, tutte queste qualità appartengono alle migliori attività: e queste, o una sola tra loro, la migliore, noi diciamo essere la felicità. 
     È manifesto tuttavia che essa ha bisogno, in più, dei beni esteriori, come abbiamo detto: è impossibile, infatti, o non è facile, compiere le azioni belle se si è privi di risorse materiali. Infatti, molte azioni si compiono per mezzo degli amici, della ricchezza, del potere politico, come per mezzo di strumenti. coloro che sono privi di alcuni di questi beni si trovano guastata la felicità: per esempio, se mancano di nobiltà, di prospera figliolanza, di bellezza; non può essere del tutto felice chi è affatto brutto d’aspetto, chi è di oscuri natali, o chi è solo e senza figli; e certo lo è meno ancora chi ha figli o amici irrimediabilmente malvagi, o chi, pur avendoli buoni, li ha visti morire.     

      
     Come dunque abbiamo detto, la felicità sembra aver bisogno anche di una simile prosperità esteriore; ragion per cui alcuni identificano la felicità con la fortuna, mentre altri l’identificano con la virtù.


(Aristotele, Etica Nicomachea, Libro I, Capitolo 8)

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L'esercizio di ciò che costituisce la propria caratteristica più specifica non può non produrre piacere: pertanto la felicità di cui si è alla ricerca deve comprendere anche il piacere. Essa infine deve presupporre anche i beni esteriori, quali la ricchezza, il potere politico, gli amici e persino l'appartenenza ad un buon casato, il possesso di una buona prole e il disporre di una certa bellezza fisica: tutte cose senza di cui non si può essere veramente felici.

E. Berti, Profilo di Aristotele, Edizioni Studium, p. 254