6 febbraio 2013

Comunicare A, comunicare CON

Una frase come “Stammi a sentire”, che A rivolge a B, anche pronunciata con un tono di voce calmo o neutro,  fa pensare che tra gli interlocutori ci sia una relazione asimmetrica, dove chi parla ha rango o status più elevato e l’altra persona  è, in qualche modo, subordinata. A si aspetta che B lo ascolti come, forse, è successo in passato. La relazione, ossia il rapporto  abituale e consolidato tra i due, prevede quindi che A possa dare un ordine a B, quantomeno in occasioni come questa.  E infatti il verbo è al modo imperativo.

Questo micro-esempio ci dà un’idea di come la comunicazione definisce la qualità della relazione. Qui, A vuole parlare a B, non con B. Di solito, invece, se io parlo con qualcuno, anche lui sta parlando con me. Se parlo a lui, probabilmente gli sto solo dando o degli ordini (“Compra il pane”, “Fa i compiti”, “Portami a cena fuori” …) o delle informazioni molto precise (“Ha telefonato la preside”, “La bolletta scade domani” ecc.).

Parlare con implica che io abbia un interesse ad ascoltare l’altro. Perché per me è importante o perché, semplicemente, sono curioso. Dopotutto comprendere una persona significa prima di tutto sapere che cosa le passa per la testa.

Tra genitori e figli non ci può essere un rapporto come quello tra amici. Tra amici vale una reciprocità molto maggiore: posso chiedere un favore e posso ricambiarlo. Posso chiedere un consiglio e darlo. Posso eventualmente, anche, prestare dei soldi…

Con mio figlio non si potrà mai avere la stessa parità: troppo ampio il divario tra le mie esperienze e le sue. Da una parte un adulto con la sua conoscenza del mondo, delle persone e di tutti i vari aspetti della vita, dall’altra un bambino, un ragazzo, un giovane.  Non mi dimenticherò quindi, quando mi rapporto con lui, che siamo diversi. Contrariamente però all’esempio iniziale fra A e B, lo tratterò come una persona con i miei stessi diritti. Diritto ad avere un’opinione, diritto ad avere una sua individualità separata, diritto di parola, diritto di scelta, ecc.

Con un figlio non si litiga, con l’amico può capitare. Ci può essere tensione, incomprensione o disaccordo nella relazione con i figli ma il genitore terrà sempre presente di costituire, per il suo interlocutore più giovane, un esempio. Se una questione (la scuola, il vestire, gli orari, il motorino…) tra me e lui viene risolta con un litigio, finisce che questo verrà vista come una modalità lecita per gestire altre situazioni analoghe. Avrò “sdoganato” il litigio.

In questo senso sappiamo che l’educazione si agisce più che con le parole, più che con i consigli, i suggerimenti o altro, proprio con l’esempio.

Impariamo dagli altri come comportarci. Noi tutti impariamo vedendo, molto più che ascoltando qualcuno che ci spiega come si fa una certa cosa.

Ci vuole attenzione quando si osserva, è vero. Ma se il modello è autorevole o è comunque una figura importante a i nostri occhi, anche quello che lui o lei fa, diventa punto di riferimento. Se separiamo i rifiuti correttamente, anche nostra figlia saprà che “si fa così”. Lo vedrà come un comportamento “naturale”. Che altro si fa con i rifiuti da buttare se non suddividerli? sarà il suo ragionamento. E lì separerà anche lei. Solo in un secondo momento si interrogherà sul valore della regola “separare i rifiuti” e forse arriverà a pensare che è proprio “giusta”.

Il messaggio che è passato del modello (l’educatore) a questo punto sarà stato interiorizzato, senza raccomandazioni, senza tante parole o spiegazioni.